Intervista alla penumologa Dagmar Rinnenburger in vista del Festival di Bioetica
A cura di Tiziana Bartolini
La dr.ssa Dagmar Rinnenburger è una pneumologa e, quale contributo nelle riflessioni concentrate in occasione del Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure, 27 e 28 agosto 2020), si è resa disponibile a rispondere alle nostre domande su un tema assai delicato su cui i vari specialisti che hanno gestito i malati di Covid-19 negli ospedali e nelle Terapie Intensive si sono interrogati durante la fase acuta della pandemia: i criteri con cui scegliere chi curare, quando e in che modo.
Tema che ha affrontato in un articolo pubblicato sulla rivista Saluteinternazionale (https://www.saluteinternazionale.info/2020/03/le-scelte-in-tempi-di-covid-19/).
Dr.ssa Rinnenburger nel suo articolo lei affronta il delicatissimo tema della cura in condizioni estreme, quali sono state quelle della carenza di posti nelle Terapie Intensive rispetto alle necessità dei malati. Qual è la sua opinione oggi, riguardando il difficile periodo in cui voi medici eravate 'in prima linea'?
Quando è scoppiata la pandemia della malattia Covid 19, cioè quando ci siamo resi conto in Italia, il virus si era già diffuso in una misura che non si immaginava minimamente. L’Italia era il primo paese in Europa che è stato colpito, travolto da uno tsunami. Tutti abbiamo in mente le immagini delle file di ambulanze davanti agli ospedali e poi dei convogli militari con le salme, che penso sia stato il momento nel quale l’Italia e tutta l’Europa si sono resi conto della gravità della situazione. In questi momenti dentro gli ospedali, chiusi a chi non era malato e non ci lavorava, succedevano cose drammatiche. Di questo periodo è l’articolo su Saluteinternazionale. L’intento era quello di offrire un sostegno ai rianimatori, che sono state duramente criticati perché la loro società scientifica, Siaarti, aveva pubblicato una dichiarazione che esplicitava i criteri con cui venivano fatte le loro scelte. La dichiarazione affermava esplicitamente:“L’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la ‘maggior speranza di vita’”. Questa frase è stata aspramente criticata. È stata intesa come “buttare i vecchi per i giovani“. Questo è stato il coro critico: sia da parte degli organismi ufficiali dell’Ordine dei medici, sia da parte cattolica. È stato enfaticamente ripetuto che non è possibile accettare discriminazioni: ogni vita è degna. In realtà lo pensavano anche i rianimatori; ma alla domanda: “Se ho un letto di terapia intensiva e tre candidati, a chi lo assegno?” nessuno dava una risposta, tranne i rianimatori. Quando ci sono tre persone molto malate, si lavora in modo affannato e non c’è tempo per riunire comitati, andava deciso in pochi minuti. Era un triage da guerra e i rianimatori hanno fatto quello che potevano, cercando condivisione e conforto in un documento condiviso. Per fortuna questo periodo estremo è alle nostre spalle. Perché poi anche la politica sanitaria ha dato una risposta: sono stati creati nuovi posti letti intensivi e sono nati gli ospedali dedicati al Covid. Abbiamo cominciato a conoscere meglio la malattia e la sua diffusione. Molteplici sono le domande critiche che ci dobbiamo porre: l’abbandono del piano della “preparedness”, come se non avessimo già visto altre epidemie, la riduzione dei posti letto, il totale abbandono del territorio, a favore di un’organizzazione ospedalocentrica….
Lei invoca l'intervento della politica nelle situazioni estreme come quelle create dal Covid-19. E scrive: "È ora di ascoltare qualcosa di esplicito da parte dei politici, non lasciandolo dire ai rianimatori disperati: facciamo tutto il possibile, ma non c’è tutto per tutti e dobbiamo scegliere". È una sostanziale ammissione del limite di azione delle strutture mediche e della necessità di condividere le responsabilità. Come pensa possa essere accolto questo appello in un Paese in cui vediamo che medici, paramedici e amministratori sono denunciati e devono difendersi nei Tribunali proprio per le emergenze della pandemia?
Penso che un paese deve prepararsi e la politica sanitaria deve tener conto che le epidemie e le pandemie possono far parte dello scenario futuro. Da anni gli epidemiologi si aspettavano “The Big One”, una pandemia che facesse numerose vittime. Non sono stati ascoltati. Non sono i rianimatori a poter creare posti nel momento critico e a preparare il territorio al contenimento della pandemia con le tre T: Testare, Tracciare, Trattare, che avrebbe evitato tanti malati in terapia intensiva. È come formare i vigili del fuoco quando la casa già brucia. L’Italia si è stretta nella fase più critica intorno agli infermieri e ai medici con azioni commoventi; abbiamo capito finalmente la loro eroica indispensabilità in questi momenti. Ma, come hanno dichiarato tanti operatori, non volevano essere eroi: volevano essere rispettati sempre, e pagati il giusto.
Un aspetto importante della sua riflessione è la relazione con il paziente, che può essere percepito come oggetto o come soggetto della cura, e quindi della decisione presa "sul paziente, non con il paziente"...
Sì, concordo. Nel libro che ho dedicato alla cronicità (La cronicità. Come prendersene cura, come viverla, Il Pensiero Scientifico 2019) ho cercato di riflettere molto sul compito di ogni cittadino di prepararsi ad affrontare eventuali emergenze e peggioramenti in corso di una malattia. L’Italia dal punto di vista legislativo ha fatto dei progressi enormi e oggi l’autonomia è formalmente garantita. Durante lo tsunami della pandemia tanto è andato perso. Era un’emergenza continua: il tempo poco, la comunicazione difficoltosa. Immaginiamo: un paziente febbrile, con il respiro molto difficoltoso, che comunica con un operatore sanitario in tuta completa con mascherina e visiera: c’è il rumore forte degli alti flussi d’ossigeno. È ovvio che i sanitari decidessero in fretta, anche spesso semplicemente per dare sollievo. Decidevano sul paziente non con lui. Ma in un’emergenza come malato posso anche apprezzare che uno decida per me. Non era proprio il setting ideale per una scelta condivisa. In più il malato era solo senza la famiglia, senza un amico. Ma ora che la grande emergenza è finita, dobbiamo riacquistare le scelte condivise. Magari anche i cittadini quando stanno bene cominciano almeno a pensare per tempo, prima delle situazioni di emergenza, che cosa vorrebbero per sé stessi ed esplicitare le proprie disposizioni. Sapendo che le scelte possono sempre cambiare, soprattutto di fronte a una domanda che sembra brutale, ma ogni tanto esprime efficacemente la realtà: “Sei pronto a morire ora?”.