A cura di Tiziana Bartolini
Le lezioni che la pandemia ci impartisce e le riflessioni che ci sollecita. A partire dalla vulnerabilità di noi tutti/e, viventi/mortali
La prof.ssa Marianna Gensabella, professoressa ordinaria di Filosofia morale presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università degli Studi di Messina, contribuisce anche a questa quarta edizione del Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure, 27 e 28 agosto 2020) che raccoglie riflessioni intorno al tema della “Cura".
Le domande che le rivolgiamo sono ispirate al documento che il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha stilato lo scorso 28 maggio 2020, dal titolo "Covid-19: salute pubblica, libertà individuale e solidarietà sociale", tenendo conto della "eccezionalità della minaccia alla salute dell'individuo e della collettività" di fronte alla quale ci ha posto la pandemia.
Prof.ssa Gensabella il coronavirus ci ha catapultato in una dimensione che difficilmente avremmo potuto immaginare. Come CNB avete preso in considerazione le relazioni che intercorrono tra tutela della salute del singolo individuo e della collettività. Quali sono le principali osservazioni rilevate?
La pandemia ha fatto emergere un problema che è centrale in bioetica, anche se spesso oscurato dalle cosiddette questioni di frontiera sull’inizio e fine vita, ossia il rapporto non sempre pacifico tra salute dell’individuo e salute della collettività. Il CNB lo ha preso in considerazione, sia nel primo parare dedicato al COVID, sia nel secondo a cui Lei fa riferimento.
Nel primo, Covid-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, la relazione tra la salute individuale del singolo e la salute di tutti assume connotazioni che non esiterei a definire tragiche. Ci si trova infatti di fronte ad uno dei dilemmi più difficili della bioetica clinica: non il conflitto tra due doveri, ma la necessità di orientarsi di fronte all’unico dovere di cura, spezzato in due, tra il dovere di curare al massimo il singolo paziente e il dovere di utilizzare al meglio risorse scarse. Il CNB risolve il dilemma nell’unico modo secondo me possibile, ricorrendo come criterio di scelta al criterio clinico, ossia alla valutazione, a parità di urgenza del bisogno di cura, della possibilità di trarre beneficio dall’intervento terapeutico. Sono esclusi tutti gli altri criteri possibili, come ad esempio il criterio dell’età. Il significato di questa scelta è di alto valore etico: ogni paziente va preso in considerazione, nessuno può essere escluso a priori, sulla base di un’appartenenza ad una determinata categoria.
Nel secondo parere Covid-19: salute pubblica, libertà individuale e solidarietà sociale il rapporto tra salute individuale e salute collettiva è preso in esame nell’ambito della valutazione delle misure di contenimento del contagio. Emergono quindi i grandi temi della libertà personale e della responsabilità sociale. Fino a che punto è possibile limitare le libertà personali, come di fatto è avvenuto durante il lock down, per salvaguardare un bene di primaria importanza come la salute pubblica? Il CNB giustifica la limitazione della libertà purché le misure prese siano appropriate, ossia proporzionate al pericolo per la salute e al tempo stesso temporanee. L’auspicio è anche che le misure di contenimento del contagio siano non imposte, ma condivise dai cittadini attraverso un processo di empowerment della consapevolezza. La parte più interessante è, quindi, quella dedicata alla responsabilità, che è vista nei suoi diversi risvolti, sia come responsabilità dell’individuo che come responsabilità della società. La responsabilità per la salute di tutti grava infatti su ogni individuo, e questo è evidente in caso di epidemie, proprio per la necessità di contenere il contagio, ma sarebbe un peso eccessivo se non ci fosse un’assunzione di responsabilità da parte della società. Spetta alla politica, quindi, in stretto e attento dialogo con la scienza, assumere le decisioni appropriate per farsi carico della salute di tutti, senza dimenticare neanche in casi di emergenza, in cui ad essere in pericolo è la salute fisica, le altre dimensioni della salute umana, da quella psichica a quella sociale. In questo senso particolare attenzione è rivolta nel parere al maggiore peso che sia l’emergenza che le misure prese per contenerla hanno sui gruppi più svantaggiati: dai minori agli anziani, dagli immigrati irregolari alle donne esposte a violenza domestica, dalle persone con disabilità a quelle private della libertà. Se l’epidemia dimostra la nostra interdipendenza c’è il rischio anche che accentui le diseguaglianze già esistenti e che ne crei di nuove. Se è vero che “siamo tutti nella stessa barca”, come ha detto Papa Francesco, è vero anche che i pesi che gravano su ognuno sono diversi, come diversa è la possibilità di salvarsi. Occorre quindi rileggere l’interdipendenza che segna le nostre vite secondo il principio di solidarietà.
Un elemento della pandemia è l'incertezza, che rimane ancora un suo tratto caratterizzante e che non ci aiuta a trovare una possibile stabilità in questo difficile passaggio. Come può aiutarci la bioetica?
Anche in questo caso la pandemia mette in luce un aspetto fondamentale della condizione umana: l’essere il nostro sapere nient’altro che una piccola isola in un oceano di incertezze. La bioetica ha sin dall’inizio, con gli scritti di Van R. Potter degli anni ’70, messo in luce come il pericolo della conoscenza sia la mancanza di saggezza, ossia l’ignoranza dei propri limiti, e come l’incertezza sulle conseguenze dell’applicazione del proprio sapere implichi per lo scienziato il dovere di agire con ’”umiltà e responsabilità”. Non solo per lo scienziato, direi per ognuno di noi. E questo virus, di cui ancora sappiamo così poco, mostra in modo evidente come le oscillazioni inevitabili del sapere scientifico si ripercuotano nella nostra vita, interrompendo progetti, scardinando consuetudini, piccole certezze quotidiane consolidate nel tempo. Cosa può fare la bioetica? Può, e non è poco, riscoprire quanto sia importante la voce di Cura, la dea a cui nell’antico mito di Iginio ripreso da Heidegger, l’uomo era consegnato per tutto il tempo della sua vita. E lo era proprio perché essere nel tempo, sospeso tra un passato a cui non poteva tornare e un futuro incerto, su cui è possibile solo avanzare ipotesi, pre-visioni. Cosa dice la voce dell’antica dea? Che occorre prendersi cura del mondo, e al tempo stesso aver cura di sé e degli altri. La bioetica della cura, che W.T. Reich ha portato avanti a partire dalla fine degli anni ’80, si ispira al mito, lo assume come fondativo della condizione umana, e al tempo stesso all’etica della cura così presente nel pensiero delle donne. Il suo modello è, a mio parere, il più adatto a rispondere all’inquieta riscoperta dell’incertezza che l’emergenza pandemica ci impone. Si tratta di una bioetica che non pone al primo posto i principi, ma i bisogni e la responsabilità: una bioetica della presa in carico della nostra comune vulnerabilità, e che si mette in moto tanto più quanto più forte avverte il bisogno di cura.
Ancora, la bioetica della cura ha al suo centro il principio di responsabilità che la porta ad agire col massimo della precauzione, a scegliere, come invita a fare Jonas, tra le diverse ipotesi di un sapere incerto, la previsione peggiore, per mettersi in moto affinché non si avveri. Detto in poche parole, la bioetica della cura mi sembra il modello più adatto ad affrontare l’angoscia dell’incertezza che il Covid mette in luce, ma non perché ci rassicuri, tutt’altro: lo è perché rafforza in noi quel senso di responsabilità e di solidarietà nella cura reciproca, così come nella cura dell’intero mondo vivente, che è l’unico modo di vivere con dignitàl’incertezza a cui come esseri umani siamo destinati.
Quale è, a suo parere, la 'lezione' decisiva che il coronavirus ci impartisce?
Una lezione dura: ci mette di fronte a delle verità, che costantemente rimuoviamo. La prima è la vulnerabilità che, pur se con pesi diversi, segna per tutti la nostra condizione di viventi/mortali. Lo dimentichiamo spesso: ci piace parlare dei vulnerabili, come di categorie a parte. Ma dove sono gli invulnerabili? Solo nella fantasia: qui, ora, l’esposizione alle ferite, al danno, alla morte ci accomuna a tutti i viventi. Il virus ce lo mostra in modo chiaro, cruento, con l’esposizione al contagio di tutti, anche dei più potenti, senza distinzione alcuna. Certo i pesi sono diversi, diverse le possibilità di cura, ma ancora, il virus ci ricorda il legame che ci unisce tra esseri umani, a dispetto dei confini, delle barriere che possiamo alzare per segnarli: un legame di interdipendenza che va oltre la nostra specie, e che fa vedere oggi in modo chiaro, attraverso il pericolo a cui siamo esposti, come il male dei nostri compagni di viaggio, così come il male della terra in cui viviamo, possa essere il nostro. E in ultimo vi è la lezione sull’incertezza, di cui abbiamo parlato prima, come dimensione a cui non possiamo sottrarci, in quanto esseri nel tempo. Tre lezioni: forse, dimentico qualcosa,ma penso bastino. Tre verità a cui non possiamo sfuggire, perché segnano in profondità il nostro essere nel mondo e nel tempo: l’unico modo per farvi fronte è assumerle con umiltà e responsabilità, prendendoci cura gli uni degli altri. Al di là dell’apparente retorica, sappiamo quanto questa semplice lezione costi sacrifici: non solo rinunciare a molte delle nostre care e comode abitudini, ma ancor più rinunciare a quell’illusione di onnipotenza che aveva segnato l’età della scienza e della tecnica. Un’età tramontata, forse. In ogni caso un’età che l’emergenza che stiamo attraversando ci impone di ripensare con lucidità e saggezza.