A cura di Tiziana Bartolini

La pandemia ha messo in discussione comportamenti che sembravano ormai indiscutibili

La prof.ssa Assunta Morresi insegna Chimica Fisica all'Università di Perugia. Fa parte del Comitato Nazionale per la Bioetica dal 2006. Al Festival di Bioetica (27 e 28 agosto 2020, Santa Margherita Ligure) porta una riflessione sulla relazione e sulla solidarietà tra generazioni suscitata dal Covid-19.

Le immagini dei camion militari che trasportavano le bare sono state tra quelle più dense di significato che la pandemia ci ha lasciato. Riflettendo oggi, alla luce dell'evoluzione del contagio e osservando i comportamenti nelle 'movide', che effetto lei pensa abbia avuto sui giovani il fatto che a morire fossero in maggioranza persone anziane e vecchie?
In un primo momento c’è stata molta empatia, molta solidarietà nei confronti delle persone anziane, quando tutta la loro vulnerabilità al nuovo virus si è resa evidente. Empatia soprattutto nei confronti di chi era istituzionalizzato, o ricoverato, o comunque in condizioni di totale affidamento a persone al di fuori della cerchia familiare: questi anziani in particolare sono morti soli, senza il conforto di un ultimo abbraccio da parte dei loro cari. Credo ci sia stato anche un non detto, un senso di colpa sul fatto che molti anziani vivessero in RSA, e non in famiglia: sappiamo che si tratta solitamente di strutture ben organizzate e attrezzate, specie in quelle regioni del Nord più colpite dalla pandemia; molte RSA sono di lunga tradizione (v. ad es. il Pio Albergo Trivulzio), e spesso l’istituzionalizzazione deriva dal fatto che nelle famiglie dove tutti lavorano non c’è possibilità di seguire persone non autosufficienti. Dalle interviste emergeva però sempre netto e forte il dolore dei familiari degli anziani deceduti per quelle malattie e morti in totale solitudine, e si indovinava un profondo rammarico. 
Una volta usciti dalla fase acuta del contagio, però, questa solidarietà sembra essersi sbiadita: sicuramente le persone anziane adesso vivono generalmente in modo più riparato, ed è anche vero che c’è voglia, legittima voglia di ricominciare a vivere da parte delle persone più giovani. Ma è evidente la disattenzione - per usare un eufemismo - con cui tanti giovani hanno preso a comportarsi nelle città e nelle piazze, incuranti del mantenimento di distanze di sicurezza, come se quella del contagio fosse una faccenda che non li riguarda. 
Eppure sappiamo che non è così: i giovani muoiono di meno per Covid-19, ma possono ugualmente contagiarsi, e contagiare soprattutto coloro con cui vivono. E le misure di sicurezza che si chiedono non sono particolarmente onerose: mascherine, distanza di sicurezza, lavaggio delle mani. Tutte azioni che consentono comunque di condurre una vita sociale fuori casa. Ma questo sembra non importare: l’idea è che il pericolo riguarda altri - gli anziani, specie se già malati - e di questi altri qualcuno ne ha la responsabilità, per esempio le istituzioni governative, quelle sanitarie, ma non certo ciascuno di noi. E quindi qualcun altro deve prendere provvedimenti per queste persone vulnerabili: non passa l’idea che il comportamento e gli atteggiamenti di ciascuno possano essere determinanti per la salute e il benessere altrui. Non a caso per un certo periodo si pensava che le persone al di sopra dei 65 anni dovessero restare confinate a casa nel periodo successivo alla fase acuta, per poter essere al sicuro: un modo per non prendersene la responsabilità, per non doversene fare carico.
Mi chiedo: ci sarebbe stato lo stesso atteggiamento se a morire per il contagio fossero state le persone più giovani, come succedeva per la spagnola? Come avremmo reagito tutti, se ogni giorno il bollettino dei morti avesse visto persone nei fiore degli anni, e fino a quel momento sane?  Quale è il significato profondo e "vero" del PRENDERSI CURA, sempre dal punto di vista di questa sua riflessione? E cosa la pandemia ha modificato - se ha modificato - nello sguardo sul mondo in generale e per i giovani in particolare ?
Prendersi cura significa innanzitutto assumersi le proprie responsabilità nei confronti del prossimo, a partire da quello “ più prossimo", da coloro che la vita ci ha messo accanto, nella consapevolezza di una generale dipendenza reciproca fra gli esseri umani. Nessuno può farcela da solo, nella vita, non solo in termini di bisogno reciproco - adesso io aiuto te perché dopo qualcuno aiuterà me - ma anche e soprattutto in termini di realizzazione personale. La realizzazione personale di ciascuno attraversa le relazioni umane: è questa la consapevolezza che è andata perduta. Adesso l’idea è che la realizzazione personale possa essere solo individuale, e le relazioni sono spesso percepite piuttosto come impedimento alla propria realizzazione.
Non so quanto la pandemia finora abbia lasciato il segno, da questo punto di vista. Sicuramente ha sollevato e sta sollevando domande e problemi, mettendo comunque in discussione comportamenti che sembravano ormai indiscutibili - dalle apericene alle vacanze all’estero low cost a portata di tutti, con tutto quel che hanno comportato di concreto e anche di simbolico nelle nostre vite e nella società. Dovremo convivere a lungo con il nuovo virus, potrebbe essere una occasione - non certo auspicata, sicuramente faticosa - per riflettere e ripensare vulnerabilità e cura come dimensione permanente della nostra vita. 

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