Natasha Cola
Università di Genova
Istituto Italiano di Bioetica

 La cura è una preoccupazione centrale della vita umana.  È tempo di iniziare a cambiare le nostre istituzioni  politiche e sociali per riflettere questa verità.                                                                        (J. Tronto)

In seguito alla pubblicazione dell’opera di Joan Tronto Confini Morali: un argomento politico per l’Etica della Cura (2006) e ai numerosi eventi formativi che hanno coinvolto in prima persona la studiosa in diversi Atenei italiani il dibattito sull’etica della cura e sulle peculiarità del lavoro di cura si sono notevolmente ampliati fornendo un contributo significativo per la riflessione sulle professioni di cura.

 

Nell’elaborazione della sua teoria la studiosa pone in evidenza come la cura assuma una dimensione fondativa nella vita di ciascuno, ma come spesso i soggetti coinvolti nelle pratiche di cura siano ubiquamente accomunati dalla condizione di appartenere a fasce sociali deboli e maggiormente vulnerabili: in primo luogo le donne, ma anche le persone appartenenti ai ceti più modesti, ai gruppi o alle etnie maggiormente esclusi dalla sfera pubblica e politica.

Le considerazioni elaborate si inseriscono all’interno delle tematiche proprie della giustizia sociale e, a parere della studiosa, lo sviluppo e l’elaborazione di questa declinazione teorica può divenire una preziosa occasione di modifica degli equilibri sociali e di potere. Questo aspetto è stato poi sviluppato in Caring Democracy pubblicato nel 2013. Secondo la filosofa considerare il lavoro di cura e l’attitudine ad esso un aspetto innato e specifico solo del genere femminile risulta non solo fuorviante, ma controproducente. Di qui le critiche da lei sollevate nei confronti di certo femminismo differenzialista, come quello teorizzato da N. Noddings, che finisce per escludere le relazioni e le professioni di cura dalla dimensione politica.

Più in generale, Tronto sottolinea come gli esseri umani non possano essere concepiti come astrattamente autonomi. Al contrario la vita e le pratiche quotidiane dimostrano come essi siano interdipendenti. L'obiettivo fondamentale della cura è, pertanto, quello d’impedire che l’interdipendenza si trasformi in un rapporto asimmetrico di dipendenza.

Un altro passo fondamentale per l’affermazione e la condivisione sociale di un’etica della cura è quello di sostituire la nostra concezione di “interessi” con una concezione significativamente più ampia che si avvicina all’idea di “bisogni”: se l'interesse è un aspetto prevalentemente individualistico, il concetto di bisogno racchiude in sé una visione intersoggettiva della relazioni che le rende politicamente rilevanti.

Ciò comporta una revisione della divisione tra vita pubblica e vita privata: l’ideale politico della cura obbliga a superare questa articolazione della vita in sfera pubblica e privata che impedisce alla cura di emergere in tutta la sua rilevanza politica.

La sfida che ci si pone consiste, pertanto, in un mutamento di prospettiva che ponga al centro le disuguaglianze locali e globali e interpretati la cura come modalità effettiva di affermazione dei diritti oltre l’uguaglianza formale e la giustizia procedurale.

Si tratta di delineare una sorta di rifondazione della società in senso inclusivo. Non a caso Tronto parla di una vera e propria rivoluzione democratica della cura sostenendo non solo la valorizzazione delle professioni di cura e delle implicazioni derivanti dalla loro pratica, ma anche dei “recettori di cura”. I processi decisionali, a livello individuale, come sociale, non sono, pertanto, riducibili alle regole di coerenza interna della Teoria della Scelta Razionale poiché l’uguale cittadinanza democratica è data dalla comunanza e dal vissuto delle nostre relazionalità, vulnerabilità ed interdipendenza che ci rendono tutti, nessuno escluso, care receivers.

È la vulnerabilità condivisa a costituire la base dell’eguale diritto di ciascuno a vedere pubblicamente riconosciuti i propri bisogni: la legittimazione di ogni democrazia dipende, infatti, dalla capacità di garantire il diritto di partecipazione politica a ogni persona, ivi inclusi, ovviamente, i cittadini che si trovano in condizione di disabilità più o meno permanente, o comunque, di dipendenza da altri.

La cura si connota, così, come uno strumento concettuale fondamentale per l’elaborazione di una teoria politica.

In particolare, sotto questo aspetto, risultano fondamentali le analisi riguardo le dimensioni della cura, le dinamiche di potere inerenti le specifiche relazioni di cura, il contesto nel quale viene praticata la cura.

Riguardo alle dimensioni della cura, la sua caratterizzazione in termini pubblici e politici comporta la definizione del rapporto sussistente tra essa e una politica effettivamente democratica che faccia proprie istanze di giustizia ed equità determinanti una riduzione delle asimmetrie nelle relazioni di cura.

Sotto questo aspetto la relazione tra cura e democrazia implica una visione della cittadinanza per cui i cittadini sono soggetti che, insieme, erogano e ricevono cure.

La “scommessa” di Tronto consiste nel considerare il lavoro di cura e le sue implicazioni come lo strumento di cui abbiamo bisogno per rifondare le nostre democrazie ponendo la cura al centro di un’etica pubblica liberale, pluralistica e democratica.

Per evitare interpretazioni astratte o essenzialistiche, vanno evidenziati i seguenti aspetti caratterizzanti la cura:

1.         Il carattere di pratica;

2.         Il suo orientamento all’azione e al raggiungimento di obiettivi concreti;

3.         L’individuazione, ad ampio spettro, dei suoi oggetti;

4.         Il suo non essere circoscritta alle persone cui siamo legati da rapporti di prossimità

5.         Il suo coinvolgere tanto la sfera delle relazioni affettive quanto quella dell’ambiente fisico in cui viviamo;

6.         Il suo essere pratica universale e, al tempo stesso, concreta

Dai suddetti punti emerge una visione non ideale della cura. Il suo carattere pratico definisce l’etica della cura come un’etica generativa legata ai contesti e alle esperienze, supportata e alimentata dalle azioni poste in atto. Essa, però, ha anche un carattere più generale che è dato non soltanto dal fatto che le pratiche di cura possono essere indirizzate a persone che ci sono “distanti”, ma anche dal suo essere una pratica che è propria della nostra umanità e che si determina nella concretezza delle azioni che vengono poste in atto.

L’assunzione di un principio etico universale deontologico per cui dovremmo prenderci cura di noi stessi, degli altri ( comprendendo gli animali non umani), di quanto ci circonda è costitutivo della catena di senso con la quale rapportiamo, fra loro, le nostre azioni e sostanzia le ragioni per cui le poniamo in atto. L’affermazione della caratterizzazione deontologica del suddetto principio universale, ossia, della doverosità del prendersi cura va intesa come esito dell’assunzione del fatto della vulnerabilità propria di tutti i viventi.

Ritengo particolarmente significativa l’integrazione apportata da Tronto in Caring Democracy con l’introduzione, fra le fasi della cura (interessarsi a; prendersi cura di; prestare cura; ricevere cura) del caring with (prendersi cura insieme). Il che significa: condivisione degli obiettivi sociali e politici di cura, sulla base di una visione pluralistica; costruzione di un’effettiva comunicazione; relazione fiduciaria, rispetto e solidarietà tra coloro che prestano e ricevono cura.

Ne consegue che, pur nella differente condizione nella quale si trovano coloro che sono coinvolti in un processo di cura, ne sono tutti soggetti attivi. La cura si sostanzia, pertanto, come un percorso di conoscenza e prassi comuni che si riverbera sui singoli arricchendo competenze e facendone emergere nuove.

Tenendo presenti le cinque fasi della cura è possibile comprendere il nesso sussistente tra cura e democrazia poiché la politica ha a che fare con il modo in cui vengono allocate le responsabilità di cura. Perciò più che allocare e distribuire risorse bisognerebbe impostare politiche che riguardino le azioni ossia i soggetti che operano concretamente nell’ambito dei processi di cura.

Sotto questo aspetto la politica democratica consisterebbe nella distribuzione delle responsabilità di cura e in un procedimento capace di assicurare ai cittadini la più ampia opportunità di partecipare alla definizione dell’assegnazione delle suddette responsabilità: la concezione della politica che emerge dall’elaborazione di Joan Tronto è pertanto, insieme, sostantiva e procedurale.

Sostantiva poiché individua nella responsabilità di cura il principale contenuto cui far riferimento per politiche distributive ed equitative; procedurale in quanto nessuno deve essere escluso dal processo deliberativo che definisce l’allocazione delle responsabilità di cura e, anche, del lavoro che ne consegue.

Ciò significa che sono necessarie pratiche di inclusione tali da consentire quel processo di apprendimento comune, di cui si è detto precedentemente: in particolare appare fondamentale l’aspetto iniziale di tale processo che concerne l’apprendimento e la valutazione dei bisogni degli altri.

 

Un esempio significativo: l’assistente familiare.

Un aspetto che intendo approfondire riguarda la dimensione dell’interdipendenza e dell’esposizione al bisogno nel rapporto di cura tra assistente familiare e soggetto in condizione di vulnerabilità più o meno temporanea: l’etica della cura va estesa anche ai caregivers in un’ottica dimensionale sistemica del processo di cura che rappresenta un investimento strategico per il riconoscimento sostanziale del ruolo e il miglioramento complessivo delle molteplici relazioni di cura esistenti nell’ambito della nostra società.

Alcuni fattori come la gravità della patologia, la menomazione riscontrata, la quantità di tempo dedicata all’accudimento dei soggetti in condizioni di vulnerabilità possono influenzare negativamente il benessere del Caregiver: coloro che si trovano a gestire patologie per le quali si è poco o per nulla informati e formati unitamente alla fatica psico-fisica dell’esperienza, spesso accompagnata da sentimenti di incapacità della gestione del dolore e della frustrazione, possono portare allo sviluppo di sintomatologie ansioso-depressive; per le assistenti familiari di origine straniera (ucraine, romene, moldave, filippine e sudamericane) il fenomeno che si somma alle difficoltà proprie del processo migratorio, ha iniziato ad essere studiato per la prima volta da due psichiatri ucraini che, a partire dal 2005 hanno evidenziato, in ambito psichiatrico, come gli effetti di quella che è stata denominata “sindrome Italia” comportassero importanti ripercussioni negative sulla qualità di vita dei soggetti direttamente e indirettamente coinvolti sia durante lo svolgimento dell’attività lavorativa che successivamente al rientro in Patria.

Le donne colpite da questa caratteristica forma di burn out presentano una sintomatologia abbastanza precisa: sono depresse, inappetenti, insonni, schizofreniche, ansiose, allucinate, ossessionate e spesso hanno pensieri suicidi; tale fenomeno ha una prevalente componente medico-sociale e viene scatenato dalla difficoltà di adattamento alla nuova situazione territoriale, linguistica e culturale, dalla difficoltà di gestione di soggetti fragili spesso senza alcuna preparazione e dalla separazione dalla famiglia di origine che, a sua volta, nutre nei confronti della lavoratrice aspettative economiche che nella realtà non possono poi trovare un reale soddisfacimento.

Le vittime di questa sindrome sono molto più numerose delle donne che ne sono affette: solo in Romania sono circa 750mila i minori che le madri lasciano in custodia a familiari, conoscenti o strutture e che frequentemente sviluppano diverse forme di disagio: rabbia, ansia, difficoltà d’apprendimento che si traducono spesso nell’abbandono scolastico; questi minori vengono denominati “orfani bianchi” .

La situazione, problematica e di grande sofferenza, trova un riscontro nell’affermazione di Tronto secondo cui i soggetti sociali che si occupano di molte professioni di cura sono per lo più soggetti marginali. Infatti, nella nostra società, il lavoro di cura, soprattutto per quanto attiene l’ambito domestico, viene svolto dai membri più svantaggiati e meno qualificati, mentre i soggetti più avvantaggiati si avvalgono del lavoro di cura svolto da altri.

Alle considerazioni appena espresse va, inoltre, aggiunta la situazione di irregolarità totale o parziale in cui, attualmente, versa circa il 60% delle donne addette alla cura in ambito domestico, con buona probabilità significativamente incidente sullo sviluppo ed incremento della Sindrome Italia, che rende ancora più difficile che questi soggetti risultino incisivi sulla politica, in quanto stranieri (e quindi non aventi diritto di voto), e in quanto spesso irregolari (e quindi più facilmente ricattabili e invisibili agli occhi della società).

Le professioni di cura, infine, richiedono un impiego molto forte sul piano fisico ed emotivo che non viene adeguatamente retribuito, rinchiuso nelle case e nel privato, notevolmente svalutato rispetto ad altre tipologie di lavoro o agli impieghi produttivi: sebbene sia essenziale per la vita dei soggetti più vulnerabili e per garantire ai diversi operatori di mercato lo svolgimento e il mantenimento della propria professione gli individui su cui grava questo onere non hanno la forza organizzativa affinché le loro istanze siano prese in considerazione, per i motivi precedentemente enucleati e per la frammentazione dei luoghi e dei soggetti che sono tra loro socialmente differenziati.

Alla luce di queste considerazioni, l’estensione della cura ai caregivers assume un carattere strategico all’interno della rivoluzione democratica della cura propugnata da J. Tronto.

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