L’interesse per la bioetica si deve al fatto che lo sviluppo tumultuoso delle scienze e delle tecnologie in campo biologico e medico pone continuamente problemi inediti riferibili non solo alle zone “di frontiera” dell’esistenza umana – come la nascita e la morte – ma anche alla vita quotidiana di tutti.
Entrati nel secolo del biotech, viviamo in un’epoca di nuovi diritti in cui, tuttavia, non risultano pienamente garantiti alcuni diritti elementari, tra cui, fondamentale, quello alla salute e alla prevenzione della malattia.
Se la “salute per tutti” è indicata come obiettivo in tutte le conferenze mondiali, la gestione delle politiche sanitarie è assunta di fatto da istituzioni finanziarie internazionali che collegano il perseguimento della salute allo sviluppo economico adottando criteri mercantili anziché, capovolgendo la prospettiva, considerare il miglioramento della salute come una condizione dello sviluppo.
In base alla Dichiarazione Universale sulla Bioetica e sui Diritti Umani (2005)il patto sociale che aveva caratterizzato la nascita del Welfare State dovrebbe evolvere verso un contratto sociale mondiale, generando un passaggio ad una Welfare Community al cui centro non è lo Stato ma la comunità costituita da tutti gli individui che hanno diritto alla piena realizzazione di sé, garantita da istituzioni e sistemi sociali adeguati.
In tal modo, un tema classico della filosofia etico-politica, il ben vivere, rientra pienamente nel campo della bioetica globale, con esiti di grande significato, specie se declinato secondo l’approccio delle capacità teorizzato dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen.
Fondamentale è l’idea di fioritura umana che comporta non solo il poter godere di livelli essenziali di benessere ma, sopratutto, avere la possibilità concreta di sviluppare quelle capacità – salute, affettività, immaginazione, pensiero, ecc. – che appartengono universalmente a tutti gli esseri umani, la cui attuazione può, tuttavia, essere ostacolata da condizioni economiche, sociali, culturali avverse.
Tale prospettiva può avere riflessi rilevanti per quanto riguarda la valutazione delle biotecnologie e il loro impatto sulle nostre vite.
Il riferimento al ben vivere è un metro di giudizio atto sia a definire le potenzialità positive, gli aspetti emancipatori delle tecnologie della libertà – libertà dal dolore, dalla malattia, dal destino biologico, eccetera – sia a segnalare le nuove sfide che il loro uso o abuso può comportare.
Le conoscenze di cui oggi disponiamo richiedono una riflessione a tutto campo, che tenga conto della rete di relazioni che ci collega alla natura e agli animali, anche in proiezione futura, e che oltrepassi il contesto degli stati nazionali.
Il passaggio da una visione del benessere inteso in senso puramente quantitativo, ad una idea di un “ben vivere” che abbia al suo centro le capacità dell’individuo e valorizzi il “prendersi cura” di sé, degli altri, del mondo, introduce ad una concezione della biopolitica in grado di garantire ad ognuno la possibilità di gestione del proprio corpo, della propria vita, dei propri impegni professionali in conformità alla propria visione del bene.
Se i dilemmi morali della bioetica costituiscono una nuova frontiera per la politica, anche in prospettiva planetaria, l’assenza del confronto pubblico su tali questioni comporta un deficit di cittadinanza dal momento che un suo effettivo esercizio dovrebbe richiedere un potere di controllo sulle politiche che riguardano la vita nostra, delle generazioni future e dell’intero ecosistema.
Per questo la sfida che sembra riservarci il futuro prossimo è quella di una cittadinanza planetaria in grado di contribuire a elaborare proposte capaci di produrre carte dei diritti e di progettare istituzioni sovranazionali capaci di tracciare le nuove frontiere della giustizia e rendere concreta la strada per il perseguimento della felicità individuale e collettiva.